Vi è mai capitato di chiedervi quale sia il vero significato della parola “comunità”? Io l’ho fatto in questi lunghi e terribili giorni, in cui il nostro paese, ma anche il suo hinterland, hanno pianto per la morte della nostra Marika. Figlia, sorella, animatrice, amica, conoscente e non solo. Una giovane vita ingiustamente spezzata sul più bello, drammaticamente sottratta all’affetto della sua “comunità”.

L’ho fatto ieri, quando, andata per darle un rapido saluto, (rapido perché, sebbene negativa, ho vissuto anche io l’esperienza del covid in casa) ho visto una grande, grandissima famiglia, abbracciata intorno alla sua bara bianca, quasi a formare un cordone per proteggerla, o semplicemente per tenerla stretta quanto più possibile e condividere con lei ancora qualche altro momento.

“Condivisione”.

Questa parola mi è entrata in testa e ci è rimasta tutta la notte. Una comunità è tale se è capace di condividere tutto: gioie e dolori, attività e momenti di pausa. Le gioie spesso si danno per scontate e si attribuisce loro valore solo attraverso il ricordo. Ma l’elemento che maggiormente rende l’idea del grado di unione di un gruppo è il dolore, quel sentimento quasi asfissiante che parte dallo stomaco e arriva fino alla gola, stringendola al punto da impedirci persino di respirare. Quella sensazione maledetta che in questi drammatici giorni stiamo provando tutti, ma di cui le persone più vicine a Marika sembrano non potersi o non volersi liberare. Perchè il dolore unisce e attraverso le lacrime sembra quasi di poterla afferrare e trattenere quanto più possibile.

C’è, tuttavia, un’altra parola fortemente legata al concetto di comunità: “dono”.

In alcune tribù di nativi americani esiste addirittura una cerimonia legata al dono: il Potlach, in cui gli esponenti delle diverse tribù offrono doni agli altri.

La cosa che più mi piace di questa parola è il concetto di reciprocità (il dono viene spesso ricambiato) che non implica, tuttavia, obbligo. Chi dona lo fa liberamente, per una particolare predisposizione dell’animo e senza aspettarsi nulla in cambio. Si possono donare oggetti, ma la cosa più bella è donare il proprio tempo. Come ha fatto Marika durante la sua breve vita. Come le avevano insegnato la sua famiglia, il suo parroco, i suoi amici. Ciascuno di loro ha donato il proprio tempo all’altro, ricevendo in cambio amore disinteressato, e quindi puro. E quell’amore, dosato e costante, ha creato legami, consolidato amicizie, generato stima, formato una comunità.

Li ho osservati in questi giorni, ho pianto per loro, li ho visti consumati, sciupati, inariditi da un sentimento che non avrebbero mai pensato di provare, ma che è l’altra faccia dell’amore.

Lo ammetto, non conoscevo Marika benissimo, ma la osservavo nella sua presenza giornaliera, ammiravo la sua energia, il suo sorriso e la stimavo, come stimo tutti questi ragazzi, sempre pronti a mettersi in gioco e capaci di andare contro le mode effimere dei nostri tempi. Combattenti sul campo, non dietro una tastiera, fieri operatori di bene, non generatori di odio. Guidati da un condottiero sempre in trincea, pronto ad aiutarli e se serve a spronarli, a ridere con loro e, come purtroppo è accaduto, a piangere insieme a loro, senza timore alcuno.

Quando li ho visti, tutti uniti attorno a lei, mi sono sentita fiera di appartenere a questa Comunità, fiera di fare crescere qui i miei figli, forse inadeguata per il troppo piccolo contributo che riesco a dare. Vedo mamme e padri trovare tempo per mettersi a servizio, sempre pronti a dire il loro sì, e mi sento un granello di sabbia dinnanzi a loro. Io che non ho mai tempo, che a stento riesco a ricavarmi qualche ora per il laboratorio che conduco.

Ognuno di loro dona qualcosa di sè all’altro. Non capivo cosa fino a ieri. Poi, improvvisamente, ho avuto l’illuminazione.

Se io dono il mio tempo ad un altro, gli trasmetto anche una piccola parte di me. Quando l’altro farà lo stesso con un terzo, gli donerà un pezzo di sè, ma anche quella parte di me che gli avevo trasmesso. È una catena, il dono, che consente di sopravvivere alla morte. Adesso capisco perchè Marika adesso, Tiziana prima, non moriranno mai davvero! Perchè resteranno vive dentro ciascuno di noi.

Abbiamo un dovere, però, da portare avanti: continuare la catena e fare in modo che il miracolo del dono continui. Oggi, domani, sempre!